mercoledì 17 ottobre 2007

La cultura della sopravvivenza

In un mondo in cui i “vincitori” fanno i padroni dei nostri destini e delle nostre vite, tale è se i “perdenti” si sentono tali.
Partì all’età di 20 anni da Delianuova senza la valigia di cartone ma con un bagaglio culturale.
Con intenzione di non voltarmi più indietro. Vedevo in quel paese la mia sconfitta. Quel luogo e quella gente per me erano la bruttezza della mia vita. Ogni ricordo, ogni posto e ogni gesto erano la mia sconfitta.
Vent’anni persi. Così si sente quando uno deve partire. Lasciare tutto.
Arrivai a Pavia giovane universitario ed entusiasta. Posto meraviglioso fatto di giovani e di cultura. Un mondo sempre desiderato, dove potevi discutere di tutto quello che volevi senza paure.
Pensavo ecco questo è il mio mondo. Ero giovane, pieno di vita e prospettive.
Graziosamente mi appellarono pastore. Dove hai lasciato le pecore?. “Com’è dura la vita dei pastori in Aspromonte”. Un mondo illuminato ed eterogeneo per cultura e provenienza. Eppure il fardello dell’aspromonte non ti lasciava mai anche in quel mondo diverso dal mio, dove l’intelligenza è principe. Ho imparato che non è così. Spara ho sbagliato a nascere. Tutto quello che rimaneva della mia vita precedente era pastore dell’Aspromonte. La mia vita precedente era stata spazzata via. Si incominciava a rimuovere tutti i pezzi.
Questi sono i momenti che ti possono far tracollare o reagire.
La soluzione ultima era la più appetitosa. Sicuramente dovevo pensare a come partire.
Una cosa rimaneva e rimane tuttora, una frase depositata nei meandri del mio cervello "vai chi meiju i tia e fanci a spisa". Frase ripetuta fino alla nausea dai miei genitori. Frase che suona cerca sempre di migliorare nella vita. Non sconfortarti mai “chjiu scuru da menzanotti no veni mai”
Certo che il coraggio non mancava e nemmeno il bagaglio della vita. Ma ancora di più l'umiltà e la dignità della gente povera. Per costruire una casa si ha bisogno di ottime fondamenti.
A distanza di anni penso a quei momenti. Non è stata una discontinuità, come pensavo, della vita precedente ma una continuazione della stessa. Essere emigrato, anche se per me era una emigrazione di lusso, è perdere una parte di se stessi, affetti e storia, in un mondo che non è nostro. Un mondo dove, mi disse una signora emigrata, tu devi fare il doppio di un’altro del posto dove vivi. Uno per essere accettato e l’altro per svolgere le tue normali funzioni. Per cui in queste situazioni abbassi la testa e vai avanti.
La dignità dei vinti è sempre stata la molla che ha fatto superare qualunque ostacolo.
La mia cultura che un tempo ho rimosso sta tornando a galla.
Poco tempo fa feci un’esame ad una nostra anziana compaesana mi disse " nui ndi ndi jimmu i ja e trovammu bentu". Si è trovato pace ma il prezzo è stato sovraumano per potersi integrare in una cultura diversa dalla nostra.
Ripenso a quando sono partito e finalmente ho firmato un’armistizio col mio passato.
Penso a tutti gli anziani con le dita nodose e la schiena curva, penso alle nostre anziane con la faccia serena anch’esse con le ossa rotte dal lavoro e dico questa gente ha costruito e diffuso una cultura di sana e robusta legalità, solidarietà e principi morali. Gente povera ma di un grande sapere della vita. Gente che ha abbassato la testa ma è sempre stata capace di passare il meglio della nostra cultura. Fatta di lavoro, ostinazione e serietà nelle proprie scelte. Non vinti ma vittoriosi perché hanno instillato in noi una grande voglia di “vai cu u mejiu i tia e fanci a spisa”.

mercoledì 10 ottobre 2007

Don Gaetano Villivà

Ad una grande persona del nostro tempo, umile in mezzo agli umili.

Don Gaetano Villivà, nato a Terranova (RC).
Il 5-5-1946, proveniente da Santa Giorgia giunse alla nostra parrocchia di Paracorio S.M.Assunta in qualità di economo.
Il 20 Novembre 1952 fu nominato parroco presso la nostra chiesa.
Morì il 2 aprile 1981 a Delianuova.

Una breve storia biografica di un grande uomo.

“Diventasti comunista”, mi disse, quando studente universitario, lo trovai in cima alla scalinata davanti al portone della chiesa. Era suo solito stare li prima di iniziare la messa.
Uomo burbero, dai modi sbrigativi ma sempre con il sorriso sulla bocca.
Memoria storica del nostro quartiere e di segreti nel confessionale.
Sempre con la tunica nera e il suo colletto bianco. Una quantità di bottoni indefinita che ancora per me rimane un mistero quanto ci mettesse ad abbottonarli al mattino.
Ha fatto crescere molte generazioni, compresa la mia, con rimproveri, a volte qualche buffetto ma sempre contento di averci accanto.
E’ stato uno degli uomini onesti e seri che nella mia vita mi è capitato di incontrare. Una fortuna. Sempre col fazzoletto in mano ad asciugarsi il sudore dalla fronte che era sempre copioso, in particolare durante le processioni.
Prevalentemente le sere d’inverno e anche nelle altre stagioni ci trovavamo nell’oratorio, una sala grande dove c’era il ping-pong e il calcio balilla. Accanto alla sala c’era il suo alloggio. Nella nostra esuberanza, tipica dei bambini e ragazzini, producevamo un caos assordante. Erano le poche volte che entrava per zittirci. Comprendeva la nostra voglia di divertirci. Quando veniva è perché oltrepassavamo i limiti. Arrivava sempre con la sua tunica nera, poche parole ma bastava la sola presenza, e tutti in silenzio. Di lui avevamo un rispetto enorme.
Le sue messe erano lo specchio della sua persona, schiette, di poche parole e di grande umanità senza mai essere ridondanti. Erano un piacere la loro brevità, ma di grande intensità.
La sua 500 bianca, sempre pulita, poche volte utilizzata se non per andare a scuola o per altre commissioni fuori dal paese. Io non l’ho mai avuto come insegnante e questo un po’ mi dispiace. Da chierichetto ricordo le interminabili ore delle processioni, in particolare quella del 15 agosto della Madonna Assunta. Noi ragazzini messi in fila da 2, eravamo in tanti, dietro lui che vigilava il nostro ordine e nello stesso tempo assolveva il proprio compito di sacerdote in una funzione. Qualcuno di noi si portava in tasca qualcosa da sgranocchiare, vista la lentezza e il tempo della processione, lui sorrideva e faceva finta di niente.
Noi non avevamo niente ma era un piacere avere lui come pastore. Pasqua era la giornata più bella per noi chierichetti. Il nostro ci regalava a tutti l’agnello pasquale di marzapane. Era il più grande dono. Una leccornia che molti di noi non poteva permettersi, era il “regalo”. L’unico che potevamo avere nella nostra povertà. Portare quell’agnello a casa era come aver avuto un trofeo.
Non era mai appariscente, non debordava mai, quelle persone che incutevano rispetto solo con la sola presenza.
Un’azione cattolica, viva, composta da tante persone e dietro le quinte il nostro don Villivà vigilava, come anche nella vita quotidiana di tutti noi.
Da chierichetti in sacrestia era una lotta perenne a chi di noi si appropriava del campanello. Liti tra bambini, sedate, ma senza intervenire sui nostri alterchi. Non esistevano ricchi o poveri per lui esistevano solo gli uomini.
Non ci sono parole per descrivere un uomo che è stato per noi, assieme ai nostri genitori, un guida morale.
Grande nella sua semplicità, dolce nel suo essere burbero e generoso con chi non aveva. Aiutò tantissime persone indigenti economicamente, con molto riserbo, nel silenzio come fanno i grandi uomini.
E’ stato un pezzo della nostra vita e dei nostri segreti nel confessionale.
Un uomo che non si dimentica e che rimarrà dentro di noi.