mercoledì 21 novembre 2007

Paure

Ogni tanto mi capita di dare uno sguardo alle notizie dei giornali o telegiornali. Rimango basito dalle notizie di violenza che ci propinano regolarmente. Il mondo è solo violenza. L’impressione iniziale a cio è chiudersi in casa e non uscire, perché sembra che la violenza è alle porte della casa. Poi siccome la maturità e le proprie convinzioni sono più forti delle sensazioni mi fermo a pensare.
Ho vissuto in una comunità dove la violenza è sempre stata presente: la povertà, la delinquenza eccetera.
Il nostro piccolo paese aveva dei limiti di territorio, di gente e di comunicazione. 4000 anime confinate in delle montagne sperdute. I pochi contatti erano con i paesi limitrofi Scido, Cosoleto, Santa Giorgia e Lubrichi. Gioia Tauro, Palmi e Reggio Calabria erano gia lontani e molto importanti come città. Come in ogni comunità incontravi i difetti e le virtù, in miniatura, dell’umanità. Quindi le poche notizie sconvolgenti erano limitate a poche migliaia di persone e a pochi avvenimenti.
Questi ultimi erano materiale di discussione, di indagini e riflessioni per dei mesi, finché non scemavano del tutto.
Altra cosa molto importante era il controllo del territorio. Attività espletata da tutta la popolazione. Genitori i controllori della casa, parenti e il resto del paese il resto del territorio.
La sicurezza dei bambini e di tutti gli altri era delegata a tutto il paese. Questa attività era svolta in modo quasi impeccabile. Naturalmente non tutto era oro quello che luccicava, le devianza esistevano, ma rappresentavo un monito per tutti noi su cosa non dovevi fare.
La casa e la strada era la nostra palestra fisica e spirituale. Rispettare la proprietà degli altri e quella comune erano regole inflessibili.
Come tutti i bambini e i ragazzi si tentava sempre di rompere le regole, ma si sapeva che ad ogni causa corrispondeva un effetto, punizione. Un equilibrio di vita civile e interiore. Esisteva un piccolo giardino nella piazzetta antistante la chiesa di Paracorio, che era un fiorire di rose e azalee. Li si osservava la nessuno di noi ragazzi ha mai pensato di oltrepassare il confine stabilito dalla comunità. Erano la e si rispettavano. Tanti anziani seduti sulle panchine erano la guardia permanente di ciò che non si doveva fare.
Questa analisi mi fa capire molte cose. La violenza è sempre esistita dove c’è il genere umano. Un tempo la notizia violenta era nel posto dove vivevi o nei paesi circostanti. La notizia l’acquisivi la metabolizzavi perché il tempo lento serviva anche a ciò. La gente la viveva come un fenomeno traumatico ed isolato. Fatto grave ma innato nella matura umana. Non si vedevano nemici da tutte le parti, si riassettava dallo shock e si continuava la vita. Esisteva un tessuto sociale solidale e reattivo che dava forza e sicurezza.
Adesso abbiamo delegato il nostro vivere quotidiano al grane mostro, che ci dirige, alleva i nostri figli, ci informa e poi ci cura: la televisione. Già anni addietro un delle espressione tipiche era "l’ha detto la televisione" come fosse verità assoluta. E’ in atto negli ultimi anni un sorta di dittatura psicologica. Si è delegata la nostra esistenza alla forza dominante attraverso uno strumento la televisione.
Ogni talk show ha sempre il bravo di turno che ci spaventa ed accanto il buon psicologo che ci rassicura con la sua esperienza, oppure il grande criminologo oppure il grande stratega della guerra.
Ci danno notizie una quantità infinita di notizie violente che succedono a migliaia di chilometri di distanza facendoli sembrare succedono accanto a casa tua. Guarda caso sempre storie di poveri cristi psicolabili , ma stranamente gente comune. Mai qualcuno al di sopra delle parti. Si sviscerano sempre e comunque le miserie della gente di un ambito sociale, ma mai di persone influenti. Strana combinazione.
Tutte queste paure quotidiane trasmesse attraverso questi programmi spazzatura e telegiornali abbastanza seri fanno si che la gente si chiude sempre di più nelle mura domestiche. Niente rete sociale e sempre più isolati. Tanto al resto ci pensa la voce del più forte la televisione. Non può esserci cultura se non c’è dialogo. Ma la cultura non è solo quella appresa attraverso lo studio, è quella determinata dal contatto, dall’esperienza e dal rispetto delle regole.
Le nostre strade sono sempre più vuote, i nostri bimbi sono sempre più insicuri e ammaestrati purtroppo non più da noi.
Forse è ora di riappropriarci del territorio, non delegando agli altri la nostra sicurezza, ma portando avanti le esperienze trasmesse nei secoli dalle nostre comunità.

mercoledì 17 ottobre 2007

La cultura della sopravvivenza

In un mondo in cui i “vincitori” fanno i padroni dei nostri destini e delle nostre vite, tale è se i “perdenti” si sentono tali.
Partì all’età di 20 anni da Delianuova senza la valigia di cartone ma con un bagaglio culturale.
Con intenzione di non voltarmi più indietro. Vedevo in quel paese la mia sconfitta. Quel luogo e quella gente per me erano la bruttezza della mia vita. Ogni ricordo, ogni posto e ogni gesto erano la mia sconfitta.
Vent’anni persi. Così si sente quando uno deve partire. Lasciare tutto.
Arrivai a Pavia giovane universitario ed entusiasta. Posto meraviglioso fatto di giovani e di cultura. Un mondo sempre desiderato, dove potevi discutere di tutto quello che volevi senza paure.
Pensavo ecco questo è il mio mondo. Ero giovane, pieno di vita e prospettive.
Graziosamente mi appellarono pastore. Dove hai lasciato le pecore?. “Com’è dura la vita dei pastori in Aspromonte”. Un mondo illuminato ed eterogeneo per cultura e provenienza. Eppure il fardello dell’aspromonte non ti lasciava mai anche in quel mondo diverso dal mio, dove l’intelligenza è principe. Ho imparato che non è così. Spara ho sbagliato a nascere. Tutto quello che rimaneva della mia vita precedente era pastore dell’Aspromonte. La mia vita precedente era stata spazzata via. Si incominciava a rimuovere tutti i pezzi.
Questi sono i momenti che ti possono far tracollare o reagire.
La soluzione ultima era la più appetitosa. Sicuramente dovevo pensare a come partire.
Una cosa rimaneva e rimane tuttora, una frase depositata nei meandri del mio cervello "vai chi meiju i tia e fanci a spisa". Frase ripetuta fino alla nausea dai miei genitori. Frase che suona cerca sempre di migliorare nella vita. Non sconfortarti mai “chjiu scuru da menzanotti no veni mai”
Certo che il coraggio non mancava e nemmeno il bagaglio della vita. Ma ancora di più l'umiltà e la dignità della gente povera. Per costruire una casa si ha bisogno di ottime fondamenti.
A distanza di anni penso a quei momenti. Non è stata una discontinuità, come pensavo, della vita precedente ma una continuazione della stessa. Essere emigrato, anche se per me era una emigrazione di lusso, è perdere una parte di se stessi, affetti e storia, in un mondo che non è nostro. Un mondo dove, mi disse una signora emigrata, tu devi fare il doppio di un’altro del posto dove vivi. Uno per essere accettato e l’altro per svolgere le tue normali funzioni. Per cui in queste situazioni abbassi la testa e vai avanti.
La dignità dei vinti è sempre stata la molla che ha fatto superare qualunque ostacolo.
La mia cultura che un tempo ho rimosso sta tornando a galla.
Poco tempo fa feci un’esame ad una nostra anziana compaesana mi disse " nui ndi ndi jimmu i ja e trovammu bentu". Si è trovato pace ma il prezzo è stato sovraumano per potersi integrare in una cultura diversa dalla nostra.
Ripenso a quando sono partito e finalmente ho firmato un’armistizio col mio passato.
Penso a tutti gli anziani con le dita nodose e la schiena curva, penso alle nostre anziane con la faccia serena anch’esse con le ossa rotte dal lavoro e dico questa gente ha costruito e diffuso una cultura di sana e robusta legalità, solidarietà e principi morali. Gente povera ma di un grande sapere della vita. Gente che ha abbassato la testa ma è sempre stata capace di passare il meglio della nostra cultura. Fatta di lavoro, ostinazione e serietà nelle proprie scelte. Non vinti ma vittoriosi perché hanno instillato in noi una grande voglia di “vai cu u mejiu i tia e fanci a spisa”.

mercoledì 10 ottobre 2007

Don Gaetano Villivà

Ad una grande persona del nostro tempo, umile in mezzo agli umili.

Don Gaetano Villivà, nato a Terranova (RC).
Il 5-5-1946, proveniente da Santa Giorgia giunse alla nostra parrocchia di Paracorio S.M.Assunta in qualità di economo.
Il 20 Novembre 1952 fu nominato parroco presso la nostra chiesa.
Morì il 2 aprile 1981 a Delianuova.

Una breve storia biografica di un grande uomo.

“Diventasti comunista”, mi disse, quando studente universitario, lo trovai in cima alla scalinata davanti al portone della chiesa. Era suo solito stare li prima di iniziare la messa.
Uomo burbero, dai modi sbrigativi ma sempre con il sorriso sulla bocca.
Memoria storica del nostro quartiere e di segreti nel confessionale.
Sempre con la tunica nera e il suo colletto bianco. Una quantità di bottoni indefinita che ancora per me rimane un mistero quanto ci mettesse ad abbottonarli al mattino.
Ha fatto crescere molte generazioni, compresa la mia, con rimproveri, a volte qualche buffetto ma sempre contento di averci accanto.
E’ stato uno degli uomini onesti e seri che nella mia vita mi è capitato di incontrare. Una fortuna. Sempre col fazzoletto in mano ad asciugarsi il sudore dalla fronte che era sempre copioso, in particolare durante le processioni.
Prevalentemente le sere d’inverno e anche nelle altre stagioni ci trovavamo nell’oratorio, una sala grande dove c’era il ping-pong e il calcio balilla. Accanto alla sala c’era il suo alloggio. Nella nostra esuberanza, tipica dei bambini e ragazzini, producevamo un caos assordante. Erano le poche volte che entrava per zittirci. Comprendeva la nostra voglia di divertirci. Quando veniva è perché oltrepassavamo i limiti. Arrivava sempre con la sua tunica nera, poche parole ma bastava la sola presenza, e tutti in silenzio. Di lui avevamo un rispetto enorme.
Le sue messe erano lo specchio della sua persona, schiette, di poche parole e di grande umanità senza mai essere ridondanti. Erano un piacere la loro brevità, ma di grande intensità.
La sua 500 bianca, sempre pulita, poche volte utilizzata se non per andare a scuola o per altre commissioni fuori dal paese. Io non l’ho mai avuto come insegnante e questo un po’ mi dispiace. Da chierichetto ricordo le interminabili ore delle processioni, in particolare quella del 15 agosto della Madonna Assunta. Noi ragazzini messi in fila da 2, eravamo in tanti, dietro lui che vigilava il nostro ordine e nello stesso tempo assolveva il proprio compito di sacerdote in una funzione. Qualcuno di noi si portava in tasca qualcosa da sgranocchiare, vista la lentezza e il tempo della processione, lui sorrideva e faceva finta di niente.
Noi non avevamo niente ma era un piacere avere lui come pastore. Pasqua era la giornata più bella per noi chierichetti. Il nostro ci regalava a tutti l’agnello pasquale di marzapane. Era il più grande dono. Una leccornia che molti di noi non poteva permettersi, era il “regalo”. L’unico che potevamo avere nella nostra povertà. Portare quell’agnello a casa era come aver avuto un trofeo.
Non era mai appariscente, non debordava mai, quelle persone che incutevano rispetto solo con la sola presenza.
Un’azione cattolica, viva, composta da tante persone e dietro le quinte il nostro don Villivà vigilava, come anche nella vita quotidiana di tutti noi.
Da chierichetti in sacrestia era una lotta perenne a chi di noi si appropriava del campanello. Liti tra bambini, sedate, ma senza intervenire sui nostri alterchi. Non esistevano ricchi o poveri per lui esistevano solo gli uomini.
Non ci sono parole per descrivere un uomo che è stato per noi, assieme ai nostri genitori, un guida morale.
Grande nella sua semplicità, dolce nel suo essere burbero e generoso con chi non aveva. Aiutò tantissime persone indigenti economicamente, con molto riserbo, nel silenzio come fanno i grandi uomini.
E’ stato un pezzo della nostra vita e dei nostri segreti nel confessionale.
Un uomo che non si dimentica e che rimarrà dentro di noi.

venerdì 28 settembre 2007

A mia madre e a tutte le donne

Cu di speranza campa disperatu mori
Proverbio profetico in un paese dove:
non ci sunnu uocchi pe ciangiri.

Delianuova, allora pedavoli e paraforio, paese dell'aspromonte che per arrivare, fino ai primi del 1940, non esistevano strade se non mulattiere. Giungere era dipendente dall’umore del tempo (meteorologico), che decideva se si poteva aprire all’esterno oppure rimanere isolati per lunghi periodi. La levantina, la neve, le fiumare queste erano i limiti all’evoluzione di una zona particolare come la nostra.
'Mbasciti juncu ca a jiumara passa.
Il popolino e in particolare le donne erano la parte finale che soggiaceva a diverse imposizioni: la natura, i gnuri, la 'ndrangheta ecc.
Na fimmina e na sumera fannu na fera.
Povere, disgraziate sempre sottomesse e anche ironia della sorte derise.
Cu 'ndavi fimmani no 'ndavi onuri.
La storia è sempre scritta dai vincitori. I perdenti sono sempre stati/te relegati/te ad un ruolo infimo.
I fimmini sbajiunu e i masculi trascuranu.
La vita delle nostre donne è sempre stata relegata ad un ruolo minore, il patriarcato è sempre stato imperante. Oltre al lavoro quotidiano, anche 'ncozzare (sottomettere) per esaudire i desideri sessuali.
'Ncozzare un termine frequente e quanto mai significativo nella popolazione povera. Si 'ncozza nei giochi, ai gnuri, al pù forte, al più delinquente ecc.. Una vita di 'ncozzati.
Quello che in fondo è la vita di un branco, il più debole soccombe.
Leggo da Schidon cronache e usanze 1870-1930, descrizione di abitudine della nostra zona, per quel che è la mia esperienza non si è fermata al 1930 anzi fino agli anni '80 non era cambiato tanto, “gran parte delle donne lavora nei campi a raccogliere olive, castagne, ghiande, coadiuva gli uomini nei lavori dell’orto, adattandosi a zappettare, innaffiare e seminare, oppure trasportando in testa mazzi di legna e ramaglie infasciate dentro la tortagna (verga di castagno ritorta).”
Letta così sembra una storia romantica e di gran fascino.
U cani du patroni muzzica sempre u sciancatu.
Le raccoglitrice di ulive erano delle schiave, senza diritti e tanti doveri.
Si svegliavano all’alba per raggiungere il fondo dove andare a raccogliere le olive. Nei tempi moderni con le automobili o i camion, si potevano permettere il lusso di dormire nella loro casa. Nei tempi passati invece dormivano in poche stanze dormitorio vicino ai fondi tutte ammassate coi loro piccoli, come le bestie.
Iniziavano la loro giornata sempre nella stessa posizione. Schiena curva in avanti, testa abbassata e sempre rivolta a terra e gambe allarghate. Con il fardale sempre umido o peggio ancora bagnato e pieno di olive. Le loro unghie durante questo periodo di lavoro non crescevano perché erano sempre a contatto e strofinavano con la terra. Ma non solo non crescevano durante il periodo della raccolta dell’olive, nemmeno a distanza di anni per questo lavoro infame. Il periodo di raccolta era da novembre ad aprile e chi conosce il clima in questo periodo nella nostra zona sa bene quanto clemente era ed è il tempo.
Si iniziava alle 7- 7,30 e si continuava fino alle 12, quando c’era l’ora di pranzo.
Ognuna tirava dal proprio sarvetto quel poco che aveva: melangiani sutt’ojio, pumadori sicchi , saliprisa e pani. Era il loro momento di riposo dove si poteva un po’ chiacchierare. Un’ora era quello che decideva chi comandava e controllava, perché...
a cira squajia e a processione no camina.
Si riprendeva verso l’una e così fino alle 5.
Ma non finiva, si doveva trasportare sopra la testa, fin dove arrivavano i camion per poi trasportarli al frantoio, i sacchi di zambara piene di olive dal peso circa di 30 kg.
U citrolo va sempre nculo all’ortolanu.
Tornate a casa si riprendeva il lavoro di mamma e moglie.
La raccolta delle castagne non era un lavoro differente.
Portare per chilometri ½ quintale di legna sulla testa non era nemmeno un divertimento.
Per quanto riguarda coadiuvare l’uomo nell’orto. L’unica cosa che coadiuvava l’uomo era la parte iniziale cioè lo zappare per rendere la terra più friabile e poi era sempre la donna a governarlo.
Nemmeno nelle feste comandate c’era riposo.
Penso solo una cosa, che la storia dovrebbe rendere merito a queste donne che in fondo sono sempre state e lo saranno sempre l’ossatura dell’umanità.
Penso che la loro saggezza avrebbe evitato a molti di noi di cercare in altri mondi il nostro futuro e la nostra libertà.

Auguri e Buon compleanno Maria

mercoledì 19 settembre 2007

U carvunaru ( Il carbonaio)

Provengo da una famiglia dove il mestiere del carbonaio è stato professato e tramandato da generazioni in generazioni; mio nonno Nino (Antonino), i miei zii (Ciccio, Peppe e Saru tutti emigrati) e mio padre (Natu, foto accanto).
Mestiere ormai perso.
Mestiere che un tempo era una delle risorse economiche dl mio paese e della nostra zona.
Strumenti a disposizione roncola (runca) e ascia (faccetta). La motosega (u serruni) è arrivata dopo, per chi se la poteva permettere, risparmiando grandi fatiche e snellendo il duro lavoro.
U carvunaru poteva considerarsi come l’operatore ecologico (spazzinu) del bosco. Perché era l’anello terminale di una catena della deforestazione controllata. Primo il tagliaboschi che dagli alberi ricavava tronchi (chianchi), poi il trasporto delle stesse effettuato dai buoi (paru di voi) e dai muli. Gli scarti che non venivano utilizzati per il commercio del legname e venivano utilizzati dal carbonaio.
Primo atto del carbonaio era il luogo dove veniva trasformato il legno in carbone , cioè la carbonaia (fossa i carvuni). Questo era un piano (chianu da fossa) posto in un sito riparato dal vento, peggior nemico della carbonaia, quindi raramente al fondo di una valle. Lo si cercava sempre ai piedi di una montagna o collina e vicino ad un corso d’acqua per tre motivi:
1. il legno veniva lanciato o trasportato a mano quindi in discesa era più facile,
2. veniva riparata dal vento
3. perché l’acqua come vedremo è un elemento importante per la trasformazione del carbone.
Il piano si effettuava scavando con il picone (picu) e vanga (pala) trasformando l’area scelta in un livello orizzontale quasi perfetto. Il diametro del piano era variabile e dipendente dalla quantità di legno utilizzata dai 5 m a 10 m.
Dicevamo tutto quello che rimaneva dal passaggio dei tagliaboschi veniva usato dal carbonaru. Il legno veniva trattato con a runca e a faccetta cioè diviso (rrimundatu). I pezzi di legno così prodotti avevano una lunghezza grosso modo di un m. le sezioni variavano da circa 2 a 12 cm circa.
Il legno veniva trasportato o lanciato sul chianu da fossa. In questo giocavano un ruolo fondamentale le donne.
Una volta sul chianu si posizionava la legna ai limiti del chianu stesso. La disposizione era circolare (rrotari (fig.1) con un andamento crescente del diametro del legno dal basso verso l’alto.Si iniziava a preparare la fossa vera e propria, un esempio di artigianato fine.
Alla base della fossa venivano poste della fascine (rrami) e sopra di esse si disponeva e si organizzava la fossa. L’utilità dei rrami, anch’essi prodotti di scarto, era:
1. perchè il legno non fosse a contatto con la terra
2. perché costituiva una sorta di reticolo che non ostacolava il passaggio del fumo, tutto per avere la maggiore resa del legno nella trasformazione in carbone. Il legno a contatto con la terra non si trasformava (maturari) e per una parte rimaneva legno affumicato (marruni). I marruni erano preziosi per la cottura dei frittuli che erano le parti del maiale (muso, piedi, orecchie, ecc.) che non venivano usate per la produzioni di insaccati. I marruni avevano diverse qualità e alcune di queste erano che non producevano la fiamma e che ardevano lentamente. Come si vede in questi due esempi nelle società povere si utilizzava tutto, non esisteva il disavanzo.
Al centro della fossa veniva posta la canna fumaria composta da grossi tronchi (ccippi) dalla lunghezza di circa 50 cm e posti uno sopra l’altro, lasciando al centro il vuoto. Questa era una vera e propria canna fumaria come si vede in tutti i tetti delle nostre case. Doveva resistere la forza che dell’altra legna successivamente posizionata esercitava su di essa. Questo era una delle abilità del carvunaru. La canna fumaria non veniva costruita nella sua interezza ma bensì si portava a livello superiore rispetto al primo livello di legna che si appoggiava. La legna che si appoggiava veniva posta in senso obliquo e verticale, dall’esterno all’interno. Una volta raggiunto il piano ideale del primo livello di legna si procedeva a completare la canna fumaria. Si poneva della legna sopra il primo livello e poi via fino al completamento della fossa, ponendo la legna con diametro decrescente dall’interno all’esterno fino all’esaurimento della stessa (FIG.2). Una capacità importante era di far rimanere meno spazio tra un pezzo di legno e l’altro.
Poi si procedeva alla copertura. Si copriva in base al materiale a disposizione. Il luogo ed il periodo era molto importante. D’estate si lavorava più in montagna e si usavano molto le felci o in mancanza di queste si usava il fogliame del sottobosco delle faggete che era abbondante. D’inverno si spostava verso climi più miti e si usavano zolle di terra con l’erba verde o il muschio. Queste produceva un'intercapedine tra la legna e la terra. La terra veniva messa dal basso verso l’alto e sempre battuta con la vanga. Una volta coperta la fossa veniva bagnata la terra e battuta dall’alto con un’attrezzo tipico che era la pala di ligno. Questo era un pezzo di tronco d’albero magistralmente modellato dal carvunaro fino a raggiungere la forma di un remo, però un po’ più spesso. Una volta battuta e compattata la terra si procedeva a dar fuoco. Si lasciava libero la parte superiore della canna fumaria e da lì si accendeva. Si usava spesso un pezzo tipico del legno di pino ad alto contenuto di resina (a deda) che una volta dato fuoco durava a lungo e sopra di esso si mettevano dei rami secchi. Si copriva la parte superiore con dei grossi ceppi e poi l’intercapedine e la terra (FIG.3).
Si praticavano dei fori sulla parte superiore della fossa a distanza di circa 60-70 cm. circa per far uscire il fumo, nel momento che il fumo diventava bianco si coprivano e si praticavano altri fori più bassi e sempre così fino ad arrivare al limite inferiore della fossa. La fossa era sempre sotto sorveglianza per evitare che si potessero formare delle aree prive di terra e così incendiarsi. Succedeva molto spesso che in vicinanza dei fori praticati si formassero delle concavità . questo era il segno che il legno sotto ardeva e non carbonizzava . A questo punto si toglieva la terra e si poneva della legna in sosituzione e si ricopriva (civare). La mattina e la sera la fossa era bagnata e battuta.
Quando dagli ultimi fori usciva la fiamma era il segno che la fossa era cotta. Si coprivano con la terra i fori e si lasciava da due a cinque giorni per far raffreddare.
Un segno oltre l’uscita del fuoco dai fori per la cottura della fossa c’era un’altra caratteristica in quanto al limite inferiore si formava uno scalino.
Si procedeva a scarvunari ovvero a togliere il carbone. La terra veniva posta ai margini del piano per essere riutilizzata alla successiva fossa. Prima di procedere all’estrazione si bagnava il carbone per due motivi uno per temperare il carbone stesso e renderlo più duttile e l’altro per spegnere eventuali focolai di fuoco.
La parte esterna era più friabile in quanto era composta di legna più sottile ed era sempre sollecitata dalla costante battitura della fossa. La parte intermedia, quindi un vasto spazio, era costituita di pezzi di legno interi e carbonizzati. Sembrava la fossa appena preparata ma anziché essere verde era nera. Questi venivano posti all’esterno sopra la terra che si era tolta dalla fossa. La parte interna era composta di carbone più grosso.
Finita questa operazione si procedeva all’insaccamento. Erano dei sacchi di iuta (sacchi i zambàra) dalla capienza variabile dai 40 ai 60 kg.
Si mettevano per prima i pezzi più grossi, ad essi si aggiungevano i pezzi di minor dimensioni , la cosiddetta carbonella (cinesa) opportunamente setacciata, per coprire gli spazi lasciati tra un pezzo e l’altro cosi da rendere compatto il sacco. Cosi fino all’orlo dove ancora si mettevano dei pezzi lunghi per evitare la fuoruscita del carbone. Venivano legati con dello spago che si faceva passare attraverso dei fori praticati ai bordi del sacco mediante un piccolo ramo appuntito (piruni). E qui finiva tutto il lavoro di 7-15 giorni.

Regole e descrizioni dei giochi della nostra infanzia

Regole e descrizioni di alcuni giochi sono tratti da:

All’ombra dei pini
Costantino Scutellà

Nuove Edizioni Barbaro di Caterina Di Pietro
www.nuoveedizionibarbaro.it

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Broschija

Due o più giocatori. Un pezzo di legno (a mazza) robusto, rotondo e lungo circa 70 cm.. Un altro legno (broschiju) lungo circa 15 cm. E appuntito alle estremità. Piccola fossa sul terreno (marreja)
Sorteggio per chi indica le modalità del gioco : a corpu, a mpizzu, a spada, u biccheri ecc.
Il sorteggiato indica il modo.

A corpu:
u broschiju messo nella marreja, in modo obliquo, viene toccato dalla mazza che lo fa roteare in aria. A questo punto l’abilitò del giocatore sta ne riuscire a colpire violentemente u boschiju con la mazza, in modo da scaraventalo il più lontano possibile. Vince il giocatore che manda più lontano u broschiju. La distanza si misura con la mazza.
A mpizzu
u broschiju viene conficcato per una punta al bordo della marreja. Si colpisce violentemente con la mazza. Vince chi manda più lontano u broschiju.
U biccheri.
Si adagia u broschiju sopra il pugno chiuso della mano controlaterale e quella che tiene la mazza. Si butta in alto e con la mazza si colpisce.
A spada
Si mette u broschiju dietro alla mazza, chiusa nel pugno, si butta in aria u broschiju e si colpisce con la mazza.

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Palorgiu (trottola)
Avvolto nella lazzata (cordicella) si scaraventa a terra u palorgiu (la trottola di legno), a corpu ( scaraventato con un colpo secco, a tiralazzu (facendo sfilare meno violentemente a lazzata). A corpu poteva essere tirato a corpu supra (con la punta rivolta verso l’alto, e a corpu sutta col la punta rivolta verso il basso. Mentre u palorgiu gira lo si prende sul palmo della mano, facendolo passare con destrezza tra l’indice ed il medio, e si apprezza o meno la bontà del palorgiu: se mangia, lo si sente pesante; se invece non mangia, si sente leggero e ndavi a pinna (leggero come una piuma).
U palorgiu più grande degli altri , con una punta grossa, viene definito cardara.
U palorgiu più piccolo viene definito pirogina.
Il gioco più caratteristico è quello del cerchio.
Due o più giocatori mettono al centro del cerchio una moneta oppure uno stuppaijo (turacciolo a corona) che bisogna porta fuori colpendola col la punta del palorgiu. Il giocatore che riuscirà a portare fuori dal cerchio la moneta, ha diritto a dare le pattuite picunate (colpi con la punta del proprio palorgiu a quello dell’avversario) con l’obbiettivo di spaccarlo.
Altra variante del gioco è di mettere u palorgiu dei giocatori al centro del cerchio. In questa variante il gioco era più divertente perché si poteva colpire il palorgiu dell’avversario centrando col il tiro.
La cattiveria dei bambini era sempre di avere due palorgi a disposizione quello con la pinna (cioè più calibrato) per il tiro, quello per dare le picconate con la cardara.


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singa
Numero indefinito di giocatori. Si traccia sul terreno una singa (due linee perpendicolari della lunghezza di 80 cm)
Tutti sono in possesso di una moneta , oppure la variante più povera i stuppaiji (turaccioli). Da una distanza prestabilita, ognuno la tira, cercando di farla avvicinare sempre più al punto d’incidenza della singa. Il modo come lanciare viene stabilito la prima volta dal giocatore che è stato sorteggiato, poi successivamente da chi è stato il primo. Queste erano definite in base alla posizione del giocatore e dal modo che veniva lanciata la moneta o stuppaiju.
In base alla posizione:
A ncùcchjiu (a piedi uniti)
All’ancata (con una gamba piegata in avanti)
Gàngila (in piedi; una gamba piegata in modo che un piede poggi sul ginocchio dell’altra gamba e e la moneta (o u stuppaijo) viene lanciata attraverso lo spazio che si crea tra le due gambe)
Ngja ( gambe divaricare, con piegata laterale).
In base al lancio della moneta.
A firriu (la moneta o stuppajio veniva presa dall’indice e pollice e si faceva roteare per centrare. O cilu ( la moneta veniva fatta rotolare)
? altro termine che non mi viene in mente
La classifica viene definita a seconda dalla distanza della propria moneta o stuppaiju dalla singa.
Chi si avvicina di più prende tutte le monete, i scrusci (le sbatte trar le mani provocando il tipico rumore) e poi le getta a terra. Ogni moneta o stuppaiju che mostra (esti) la tesa sono di sua proprietà. Il resto (non esti) viene lasciato al secondo che ripete la stessa oprazione.
Quando rimane una sola moneta viene firrijata (fatta roteare) in aria.

Le stesse regole valevano quando si usava anziché la singa il muro di una casa che dava sulla strada.

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Battimùru

Due o più giocatori, a turno, fanno battere sul muro una moneta di loro proprietà. Il giocatore che manda la moneta vicino a quella dell’avversario, s’impadronisce della stessa. La distanza tra una moneta e l’altra deve rientrare in una misura precedentemente concordata fra tutti i giocatori. Denomina busca (circa 18-20 cm. di qualsiasi materiale reperito sul campo)

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Manna
Due squadre formatela diversi (da 2 a 5) elementi ciascuna.
Sorteggio per chi ncozza sutta.
La squadra sorteggiata ncozza sutta (si dispone in fila a forma di treno, con la schiena abbassata e la testa incuneata tra le gambe del compagno che lo precede). Il capofila appoggia le mani e la testa sulla mamma, elemento neutrale che sta seduto e regola il gioco, quando non c’è si appoggia al muro. L’altra squadra salta in groppa ai malcapitati e vi deve rimanere sopra, in equilibrio, senza toccare i piedi per terra, per un tempo precedentemente stabilito.
Se uno dei giocatori si stanca per il peso sostenuto, può dire manna, e tutta la squadra è costretta a scende e prima del tempo stabilito. Il gioco riprende, poi, con le sesse modalità. Se la squadra che sta a cavallo commette infrazioni, la situazione si capovolge: sarà quest’ultima a 'ncozzare e l’altra a montare.

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uno la monta

Numero indefinito di partecipanti al gioco.
Si sorteggia il giocatore sulle cui spalle dovranno saltare tutti gli altri componenti.
Il sorteggiato si dispone in una posizione che lo vede con la schiena ricurva in avanti, testa bassa e mani appoggiate sulle ginocchia, in modo che facciano da sostegno al peso dei giocatori che si alternano a saltare sulle spalle.
Ogni giocatore che salta menziona i numeri ripetendo la seguente filastrocca:

uno la monta
due il bue
tre la figlia del re
quattro lo spazzino
cinque il facchino
sei i pil…….sunnu i mei
sette il tacchetto (a questo punto il saltatore da un calcio al sedere mentre salta)
otto il biscotto
nove passa i caval di mazze e lascia la sua cinta
dieci passa il caval di mazze e riprende la sua cinta.

Il giocatore che sbaglia si menti sutta (si dispone con la schiena piegata), sostituendo il precedente.

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Vìziju
Si tratta del gioco dell’astragalo (osso del tarso del bue simile a un dado con più facce).
Si lancia un viziju e a seconda della faccia che mostra ci sono diverse possibilità: tra le altre c’è quella che permette a chi conduce il gioco di stabilire quanti colpi, quando esce la matta, con un fazzoletto annodato, deve ricevere il perdente.


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Mmuccia
Corrisponde al nascondino.



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Cchiàppa
Al gioco prendono parte diversi elementi.
Il sorteggiato deve rincorrere gli altri partecipanti tentando di raggiungere e prendere (cchjappari) qualcuno.
Colui che è raggiunto e preso a sua volta rincorrerà gli altri.

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Castèja

Due o più giocatori costruiscono dei castelli di noci formati da una base di tre noci o castagne sormontata da altre due. La distanza tra i casteji è determinata dal baju (castagna o noce più grossa usata per il lancio. Si sorteggia per stabilire chi dirige il gioco (indicando la distanza e le modalità del tiro.
Le modalità sono sovrapponibili a quello della singa.
Il giocatore di turno, presa la mira, al grido di ssillarò se resta, lanciava il baju cercando di colpire e gettare la maggior parte di casteja.

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U Campanaru

Gioco per ambo i sessi, consistente nel disegnare sul pavimento (per strada allora) una serie di riquadri col gesso (carbone o pezzettini di mattone) a forma di campanile sul quale bisognava saltellare con un piede nelle celle singole e con due nelle caselle doppie e senza toccare le righe prendendo la pietra o il pezzettino di mattone precedentemente lanciato sulle caselle numerate andando in avanti e poi indietro dai numeri più piccoli a quelli più alti.

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Cili-cili

Si creava un declivio con materiale vario. Si facevano scivolare (cilari, da dove cili-cili) le nocciole una a una. Chi riusciva a far toccare la sua nocciola con altre, entrava in possesso di queste ultime.

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Gronci e ponci, quantu lanci.

Bisognava indovinare quante nocciole o castagne teneva in pugno l’avversario. Se veniva azzeccato il numero se ne entrava in possesso.

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Patri gilormu.

Si tira a sorte in un gruppo di partecipanti, il sorteggiato fa patri gilormu. Il gioco si svolge in una piazza.
Patri gilormu ha la sua casa che è un rettangolo disegnato per terra di misure variabile. Esce dalle linee delimitate, della sua casa, pronunciando la frase nesci patri gilormu e con un solo piede per terra e l’altro piegato deve tenere sempre questa posizione. In mano un fazzoletto annodato rincorre gli altri partecipanti per colpirli.
Se poggia il secondo piede per terra gli altri incominciano a colpirlo finché non si rifugia nella sua casa.
Se colpisce uno dei partecipanti automaticamente diventa suo figlio e ambedue rientrano a casa.
Quando escono tutte e due patri gilormu deve sempre pronunciare la frase nesci patri gilormu cu so fighiju e il nome del prigioniero sempre con un piede appoggiato per terra. Il gioco finisce quando tutti i partecipanti diventano figli di patri gilormu.

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Chiappa e libera
Si formavano delle squadre (da 3 a 5) , la squadra sorteggiata si appropriava della casa.
Da qesta partivano a catturare gli altri toccandoli solo. Ognuno prigioniero era portato in casa e sorvegliato da alcuni componenti della squadra, mentre i rimanenti procedevano alla cattura degli altri. Si sorvegliava i prigionieri perché glia altri liberi potevano liberarli solo toccandoli.
Finiva quando tutti erano catturati.
Così si iniziava un’altra partita con un’altra squadra.

Chiappa e mmuccia

U schiaffettu


U cucuzzaru

I quatretti

martedì 18 settembre 2007

Ogni volta che torno a Delianuova vado a trovare due di noi che hanno avuto il coraggio di rimanere, grazie alla loro intelligenza, capacità e tenacia , costruendo qualcosa che da lustro alla nostra terra.


Complice il Parco Nazionale dell’Aspromonte, Antonio Barca non ha lasciato le sue montagne. Non se ne è andato dai suoi fiumi che, nei mesi invernali, scorrono con forza terribile verso un Mediterraneo così vicino e, allo stesso tempo, così lontano. Oggi Antonio può salire, ogni giorno, come quando era bambino, ai piani di Carmelia, terrazza geologica sotto la piramide di boschi e la roccia di Montalto, la vetta più elevata, a quasi duemila metri, di questa ultima montagna del continente Italia. Eppure, solo pochi anni fa, Antonio, 40 anni, aveva la valigia già pronta: non poteva più fare, per una schiena a pezzi, il carpentiere. Marie Theresè Italiano (Teresa), sua moglie, era già a Treviso. Tutto era pronto per lasciare il paese, Delianuova, e migrare, come mille altri, verso Nord. Ma questa, per fortuna, è una delle storie-simbolo del nuovo Aspromonte, uno dei tanti racconti possibili della rinascita di questa montagna: Antonio alla fine, con coraggio e felicità, ha fatto retromarcia, ha deciso che il suo futuro è ancora qui. Ai piani, fra le faggete di alta quota, fra le fiumare di ciottoli lisciati dalle acque, fra i paesi che si abbarbicano alla pietra, fra la neve che, per mesi e mesi, si ribella alla dolcezza del Mediterraneo e imbianca l’Aspromonte. Antonio è diventato una delle guide del Parco. E, con altri giovani (Diego ed Aldo), ha creato un’associazione di turismo naturalistico. Tre ragazzi che, in questa periferia estrema d’Europa, hanno deciso che vale la pena provare a vivere in una terra straordinaria.

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da Repubblica

In punta d'Italia

Compare Saro mi disse una notte: che senti nel bosco? ( chi senti intra o boscu?)Io dissi: sento il vento ( sentu u ventu). E lui: scimunito, questa è l'acqua ( scimunito, chista ie acqua) . Aveva ragione, c'era un torrente. E all'alba lui era lì, nel posto giusto a pescar trote".

Sono uscite le stelle e Antonio Barca, proprietario, costruttore e gestore del rifugio di Piani di Carmelìa, quota 1260, racconta come ha imparato a conoscere la Montagna Sacra dei calabri. L'Aspromonte, alto come un transatlantico nel mare senza fine. Antonio ha fatto tutto da solo. Ha trovato il terreno e costruito il rifugio con oltre venti letti. Oggi ha la schiena rovinata dalla fatica ma non si lamenta, è felice di vivere quassù. Ha acceso il fuoco, a tavola c'è sua moglie Marie Thérèse Italiano, c'è Diego Festa, la guida scesa dal cielo che m'ha aggiustato la Topolino, e l'amico Giuseppe Lorenti che m'ha raggiunto come un falchetto da Catania.

La macchinina è fuori al fresco, sporca e felice. "Mio padre e compare Saro mi hanno insegnato a conoscere la montagna, a muovermi senza mappe di notte ascoltando il rumore dell'acqua, a trovare le tane delle martore, a cacciare i ghiri dopo la festa dei Morti. Ah, i ghiri! Sono una leccornia, la carne più delicata del mondo...

Ho imparato tutto da bambino: vedevo ghiande a terra e sapevo se le aveva rosicchiate il ghiro, il topo, il moscardino o la ghiandaia. Questo è il mio mondo, la vita mia". Per un attimo scende il silenzio. "Ma è dura quassù, Paolo. Non sai quanto è dura.

Le colombe partono e i corvi restano. L'emigrazione è ripresa alla grande. Ma io ho detto no, non sono partito, ho investito qui tutto quello che avevo. Questa montagna è una favolosa risorsa per i giovani di buona volontà. Ma quasi nessuno mi aiuta. Pensa che un giorno è venuto qui il presidente del parlamento danese, con i figli e il sacco a pelo. E' rimasto folgorato dal luogo. Te lo vedi un politico italiano che fa la stessa cosa?".