mercoledì 19 settembre 2007

U carvunaru ( Il carbonaio)

Provengo da una famiglia dove il mestiere del carbonaio è stato professato e tramandato da generazioni in generazioni; mio nonno Nino (Antonino), i miei zii (Ciccio, Peppe e Saru tutti emigrati) e mio padre (Natu, foto accanto).
Mestiere ormai perso.
Mestiere che un tempo era una delle risorse economiche dl mio paese e della nostra zona.
Strumenti a disposizione roncola (runca) e ascia (faccetta). La motosega (u serruni) è arrivata dopo, per chi se la poteva permettere, risparmiando grandi fatiche e snellendo il duro lavoro.
U carvunaru poteva considerarsi come l’operatore ecologico (spazzinu) del bosco. Perché era l’anello terminale di una catena della deforestazione controllata. Primo il tagliaboschi che dagli alberi ricavava tronchi (chianchi), poi il trasporto delle stesse effettuato dai buoi (paru di voi) e dai muli. Gli scarti che non venivano utilizzati per il commercio del legname e venivano utilizzati dal carbonaio.
Primo atto del carbonaio era il luogo dove veniva trasformato il legno in carbone , cioè la carbonaia (fossa i carvuni). Questo era un piano (chianu da fossa) posto in un sito riparato dal vento, peggior nemico della carbonaia, quindi raramente al fondo di una valle. Lo si cercava sempre ai piedi di una montagna o collina e vicino ad un corso d’acqua per tre motivi:
1. il legno veniva lanciato o trasportato a mano quindi in discesa era più facile,
2. veniva riparata dal vento
3. perché l’acqua come vedremo è un elemento importante per la trasformazione del carbone.
Il piano si effettuava scavando con il picone (picu) e vanga (pala) trasformando l’area scelta in un livello orizzontale quasi perfetto. Il diametro del piano era variabile e dipendente dalla quantità di legno utilizzata dai 5 m a 10 m.
Dicevamo tutto quello che rimaneva dal passaggio dei tagliaboschi veniva usato dal carbonaru. Il legno veniva trattato con a runca e a faccetta cioè diviso (rrimundatu). I pezzi di legno così prodotti avevano una lunghezza grosso modo di un m. le sezioni variavano da circa 2 a 12 cm circa.
Il legno veniva trasportato o lanciato sul chianu da fossa. In questo giocavano un ruolo fondamentale le donne.
Una volta sul chianu si posizionava la legna ai limiti del chianu stesso. La disposizione era circolare (rrotari (fig.1) con un andamento crescente del diametro del legno dal basso verso l’alto.Si iniziava a preparare la fossa vera e propria, un esempio di artigianato fine.
Alla base della fossa venivano poste della fascine (rrami) e sopra di esse si disponeva e si organizzava la fossa. L’utilità dei rrami, anch’essi prodotti di scarto, era:
1. perchè il legno non fosse a contatto con la terra
2. perché costituiva una sorta di reticolo che non ostacolava il passaggio del fumo, tutto per avere la maggiore resa del legno nella trasformazione in carbone. Il legno a contatto con la terra non si trasformava (maturari) e per una parte rimaneva legno affumicato (marruni). I marruni erano preziosi per la cottura dei frittuli che erano le parti del maiale (muso, piedi, orecchie, ecc.) che non venivano usate per la produzioni di insaccati. I marruni avevano diverse qualità e alcune di queste erano che non producevano la fiamma e che ardevano lentamente. Come si vede in questi due esempi nelle società povere si utilizzava tutto, non esisteva il disavanzo.
Al centro della fossa veniva posta la canna fumaria composta da grossi tronchi (ccippi) dalla lunghezza di circa 50 cm e posti uno sopra l’altro, lasciando al centro il vuoto. Questa era una vera e propria canna fumaria come si vede in tutti i tetti delle nostre case. Doveva resistere la forza che dell’altra legna successivamente posizionata esercitava su di essa. Questo era una delle abilità del carvunaru. La canna fumaria non veniva costruita nella sua interezza ma bensì si portava a livello superiore rispetto al primo livello di legna che si appoggiava. La legna che si appoggiava veniva posta in senso obliquo e verticale, dall’esterno all’interno. Una volta raggiunto il piano ideale del primo livello di legna si procedeva a completare la canna fumaria. Si poneva della legna sopra il primo livello e poi via fino al completamento della fossa, ponendo la legna con diametro decrescente dall’interno all’esterno fino all’esaurimento della stessa (FIG.2). Una capacità importante era di far rimanere meno spazio tra un pezzo di legno e l’altro.
Poi si procedeva alla copertura. Si copriva in base al materiale a disposizione. Il luogo ed il periodo era molto importante. D’estate si lavorava più in montagna e si usavano molto le felci o in mancanza di queste si usava il fogliame del sottobosco delle faggete che era abbondante. D’inverno si spostava verso climi più miti e si usavano zolle di terra con l’erba verde o il muschio. Queste produceva un'intercapedine tra la legna e la terra. La terra veniva messa dal basso verso l’alto e sempre battuta con la vanga. Una volta coperta la fossa veniva bagnata la terra e battuta dall’alto con un’attrezzo tipico che era la pala di ligno. Questo era un pezzo di tronco d’albero magistralmente modellato dal carvunaro fino a raggiungere la forma di un remo, però un po’ più spesso. Una volta battuta e compattata la terra si procedeva a dar fuoco. Si lasciava libero la parte superiore della canna fumaria e da lì si accendeva. Si usava spesso un pezzo tipico del legno di pino ad alto contenuto di resina (a deda) che una volta dato fuoco durava a lungo e sopra di esso si mettevano dei rami secchi. Si copriva la parte superiore con dei grossi ceppi e poi l’intercapedine e la terra (FIG.3).
Si praticavano dei fori sulla parte superiore della fossa a distanza di circa 60-70 cm. circa per far uscire il fumo, nel momento che il fumo diventava bianco si coprivano e si praticavano altri fori più bassi e sempre così fino ad arrivare al limite inferiore della fossa. La fossa era sempre sotto sorveglianza per evitare che si potessero formare delle aree prive di terra e così incendiarsi. Succedeva molto spesso che in vicinanza dei fori praticati si formassero delle concavità . questo era il segno che il legno sotto ardeva e non carbonizzava . A questo punto si toglieva la terra e si poneva della legna in sosituzione e si ricopriva (civare). La mattina e la sera la fossa era bagnata e battuta.
Quando dagli ultimi fori usciva la fiamma era il segno che la fossa era cotta. Si coprivano con la terra i fori e si lasciava da due a cinque giorni per far raffreddare.
Un segno oltre l’uscita del fuoco dai fori per la cottura della fossa c’era un’altra caratteristica in quanto al limite inferiore si formava uno scalino.
Si procedeva a scarvunari ovvero a togliere il carbone. La terra veniva posta ai margini del piano per essere riutilizzata alla successiva fossa. Prima di procedere all’estrazione si bagnava il carbone per due motivi uno per temperare il carbone stesso e renderlo più duttile e l’altro per spegnere eventuali focolai di fuoco.
La parte esterna era più friabile in quanto era composta di legna più sottile ed era sempre sollecitata dalla costante battitura della fossa. La parte intermedia, quindi un vasto spazio, era costituita di pezzi di legno interi e carbonizzati. Sembrava la fossa appena preparata ma anziché essere verde era nera. Questi venivano posti all’esterno sopra la terra che si era tolta dalla fossa. La parte interna era composta di carbone più grosso.
Finita questa operazione si procedeva all’insaccamento. Erano dei sacchi di iuta (sacchi i zambàra) dalla capienza variabile dai 40 ai 60 kg.
Si mettevano per prima i pezzi più grossi, ad essi si aggiungevano i pezzi di minor dimensioni , la cosiddetta carbonella (cinesa) opportunamente setacciata, per coprire gli spazi lasciati tra un pezzo e l’altro cosi da rendere compatto il sacco. Cosi fino all’orlo dove ancora si mettevano dei pezzi lunghi per evitare la fuoruscita del carbone. Venivano legati con dello spago che si faceva passare attraverso dei fori praticati ai bordi del sacco mediante un piccolo ramo appuntito (piruni). E qui finiva tutto il lavoro di 7-15 giorni.

1 commento:

piera-r ha detto...

caspita, che memoria